martedì 27 settembre 2011

Aiutiamo l’Accademia della Crusca

In questi giorni di grandi manovre finanziarie, l’Accademia della Crusca ha rischiato grosso.

Sembrava di assistere a un mortale gioco delle sedie dove, sulle note di una musica drammatica, chi non riusciva a sedersi in tempo veniva tagliato fuori.
Infatti, inizialmente, la Crusca è stata condannata al patibolo in compagnia di altre organizzazioni culturali e di ricerca con meno di 70 impiegati e ridotta a istituto di ricerca privato con fine istituzionale chiaramente pubblico; poi il governo le ha gettato la scialuppa di salvataggio.
Ma domani, chissà.

Purtroppo l’instabilità della situazione attuale e la scarsa considerazione di cui gode la cultura nel nostro Paese (nonostante gli spot turistici si affannino a promuovere l’Italia come il paradiso dell’arte, della cultura, della storia e della gastronomia) non permette alla Crusca di dormire sogni tranquilli.

Ma noi possiamo aiutarla a rimanere a galla, aderendo all'appello lanciato insieme al Sole 24 Ore.
Le modalità di sostegno sono diverse e sicuramente troverete quella che fa più al caso vostro.
Io sono indecisa tra il bonifico bancario e l’abbonamento al periodico La Crusca per voi.

E voi, amatori della lingua italiana, aiuterete la Crusca?

lunedì 26 settembre 2011

Raymond Carver sulla riscrittura

In questi giorni sto rileggendo a ritmo elevato tutti i post del Mestiere di scrivere scritti dal giugno 2003 a oggi, salvando su Google Docs i post più interessanti — quindi quasi tutti — e appuntandomi su un quaderno i concetti fondamentali della scrittura professionale.

La riscrittura è tra questi.
Grazie a Luisa Carrada e altri maestri come William Zinsser sto realizzando l’importanza di questa fase del lavoro di uno scrittore.
Prima la consideravo una seccatura, un obbligo noioso ma imprescindibile per individuare i refusi che, inevitabilmente, costellano qualsiasi scritto. Pensavo che lo scrittore di talento scrivesse le sue opere di getto, ispirato dalla sua musa o guidato dalla sua innata bravura, senza avere la necessità di rivedere le sue parole perché già perfette e combinate ad arte.
Ora invece sto rivalutando questa pratica e, anzi, inizio anch’io a considerarla più importante della prima stesura di un articolo: si rilegge e si interviene per individuare non solo gli errori ortografici ma anche le espressioni che non funzionano, per eliminare gli sbrodolamenti eccessivi e gli orpelli inutili cercando di costruire un testo minimalista e più scorrevole.

Conferma questa tesi anche Raymond Carver nella sua raccolta di saggi Il mestiere di scrivere dove c’è un articolo dedicato all’argomento (On Rewriting in lingua originale, pubblicato come postfazione di Fires nel 1983).
Mi piace pasticciare con i miei racconti. Preferisco armeggiare attorno a un racconto dopo averlo scritto e poi armeggiarci di nuovo in seguito, cambiando una cosa qui e una lì, piuttosto che scriverlo la prima volta. La stesura iniziale mi sembra la parte difficile da superare per poi andare avanti e divertirmi col racconto. La revisione per me non è un obbligo sgradito - anzi, è una cosa che mi piace fare. [...] So solo che rivedere e correggere l’opera dopo averla scritta è una cosa che mi viene naturale e in cui provo un grande piacere. Può darsi che io corregga perché così facendo mi avvicino pian piano al cuore dell’argomento del racconto. Sento di dover continuamente tentare di scoprirlo. È un processo, non una posizione stabile.
— Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi, 2008 (pg. 57)
E nella pagina successiva:
Ma in verità, mi è capitato raramente di vedere un’opera in prosa o in poesia — mia o di chiunque altro — che non potesse essere migliorata dopo esser lasciata in pace per un po’.
Carver sta parlando della scrittura creativa, ma le sue parole valgono anche nella scrittura professionale.

lunedì 12 settembre 2011

11/09/2001: 10 anni dopo

In occasione del decimo anniversario dall'episodio forse più sconcertante della storia degli USA, ieri sul Web impazzava la domanda: "Dov’eri e cosa stavi facendo durante l’attentato alle Torri Gemelle?".
Mi impressiona notare come tutti ricordino alla perfezione il luogo in cui si trovavano e l’attività in cui erano impegnati, poi sospesa di fronte alle sconcertanti immagini proposte in diretta dalla televisione.

In ritardo, partecipo anch’io al sondaggio.

Dov’ero quel pomeriggio?
Ero seduta al tavolo in cucina e stavo frettolosamente completando i miei compiti delle vacanze di francese.
Il terzo anno al liceo linguistico era ormai alle porte e io, come da copione, non avevo ancora finito gli esercizi di scuola. Mia mamma, in piedi accanto a me, era concentrata nei preparativi della cena; invece, nella stanza accanto, mio fratello stava sdraiato scompostamente sul divano, assorbito dalla sua attività extra-lavorativa preferita: lo zapping alla televisione.

All’improvviso lui ci urla di accendere la televisione perché era successo qualcosa di molto grave a New York.
Eccola lì, la torre nord del World Trade Center che sputava nuvole di fumo grigio-nero da una gigantesca voragine.
Poco dopo, ancora immersa nell’incredulità, vedo schiantarsi un aereo sulla torre sud. La scena si ripete: lingue di fuoco erompono dopo l’urto, pericolosi detriti cadono a terra e del nuovo fumo oscura il cielo di New York.
Ogni speranza di vedere tratti in salvo le vittime dell’incidente (l’opzione attentato era solo una possibilità) si spegne con il crollo di entrambi i grattacieli. Le migliaia di persone rinchiuse in quella trappola di cemento e metallo vanno incontro alla morte impotenti e i loro minuscoli resti si mescolano insieme allo tsunami di polvere che si abbatte sulle strade di Manhattan.
Nel frattempo altri due aerei si schiantano contro il Pentagono e in nei pressi di Shanksville, Pennsylvania.

A distanza di dieci anni, posso dire che l’attentato all’America ha determinato per me la fine dell’età dell’innocenza.
La confortevole teca di cristallo in cui avevo vissuto fino a quel momento si è infranta in mille pezzi, lasciando il posto a una nuova, amara consapevolezza: l’essere umano può essere malvagio, è in grado di uccidere e di uccidersi per futili motivi e può persino organizzarsi meticolosamente per realizzare folli progetti di sterminio. Nessuno può più sentirsi davvero al sicuro e fidarsi ciecamente del prossimo può rivelarsi pericoloso.

Ma oltre al racconto dei miei ricordi, voglio segnalarvi l’associazione no-profit StoryCorps, autrice di un’ottima iniziativa legata all’11 settembre.
StoryCorps, an independent non-profit based in Brooklyn, New York, is creating “One story for every life lost on September 11th.” Their motto is that “every voice matters” and this specific project was created in order to honor the “lost voices” of 9/11. Using interviews conducted with family members and friends of the people who were killed in the attacks, StoryCorps has created a series of animated shorts that brings those individual stories to life.
StoryCorps ha lavorato per omaggiare alcune di quelle persone attraverso dei cortometraggi animati in modo che le loro identità non si perdessero nell’anonimia dei grandi numeri e il loro ricordo non sfumasse con il trascorrere del tempo.
Per realizzare il progetto – il cui obiettivo è di registrare un’intervista per ogni vita spezzatasi quel giorno - l’associazione ha lavorato fianco a fianco con i familiari delle vittime:
  • in She Was the One, Richie Pecorella ricorda l’amore della sua vita Karen Juday, assistente amministrativo della Cantor Fitzgerald al 101° piano della torre nord
  • anche Michael Trinidad lavorava per la Cantor Fitzgerald: la sua storia è narrata dall’ex moglie Monique Ferrer in Always a Family
  • John Vigiano Sr., vigile del fuoco in pensione, ha perso entrambi i figli: Jonh Jr., anch’egli pompiere, e Joe, detective di polizia. Li ricorda in John and Joe
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